19 dic 2012

Articoli di Lidia Ferrari / Artículos de Lidia Ferrari



Articoli di Lidia Ferrari /  Notas de Lidia Ferrari 

    ITALIANO:


Balliamo? o "Mirada y cabeceo" (sguardo e cenno col capo?): L’invito a ballare

Un po’ di calma, per favore!

LO STILE VERDUN PER BALLARE IL TANGO

     CASTELLANO:


El tango te lleva sin decirte adónde va 

EL TRAFICO EN LAS MILONGAS


  

 

LO STILE VERDUN PER BALLARE IL TANGO


LO STILE VERDUN PER BALLARE IL TANGO
Lidia Ferrari

Nella mia precedente casa-studio del mio amato “barrio” (quartiere, ndt) di Palermo Viejo, quando ancora non si era convertito nel vanesio Palermo Hollywood, avevo un vicino chiamato Verdun. Condividevamo il corridoio in questa casa di costruzione tradizionale del barrio di Palermo. Quelle case chiamate PH o “casa-chorizo”  (= casa -salsiccia: tipo di abitazione tradizionale a Buenos Aires caratterizzata da un cortile centrale con le stanze tutt'attorno, raggiungibili sia dal cortile sia attraverso porte intercomunicanti. ndt)  che sono rimaste relegate dalla nuova fisionomia degli elegantissimi e carissimi alti edifici che non portano solo ombra ai “patio” delle case. Sapevo che il mio vicino si chiamava Verdun poiché vedevo la sua corrispondenza all'entrata. Era ingegnere, specialista in caldaie. Era di quegli ingegneri, specie in estinzione, che lavorano duro con le loro mani. In un angolino della sua casa costruiva e inventava caldaie con un aiutante più giovane che eseguiva, con sicurezza, il compito più pesante. Verdun (così lo chiamavamo), aveva abbastanza più di 75 anni. Era snello e dal portamento elegante. Non aveva la raffinatezza di un elegante signore di Recoleta, ma la dignitosa eleganza di un portegno che ha vissuto quello che deve vivere. Balli, donne, famiglia, lavoro. Un uomo di Buenos Aires, senza dubbio. Ma non il suo stereotipo. Con la prestanza semplice della verità. Un autentico signore di quartiere, ingegnere, conoscitore del suo lavoro e del suo ambiente. Di un signore così non si sarebbe potuto fare alcun rilievo particolare, poiché non aveva nulla di speciale. Doveva essere vedovo o divorziato da molto tempo. La sua figlia viveva in Spagna e aveva una fidanzata giovane e psicotica. Verdun si vestiva come quei tanghéri o quegli appassionati di corse di cavalli che vanno la domenica all'ippodromo di Palermo col loro vestito migliore, un po' invecchiato e passato di moda, un po' adattato al corpo, per quando l'occasione lo richiede. Niente di particolare in Verdun, salvo che un giorno, avendo saputo che insegnavo tango nel mio studio, mi espresse il suo desiderio di venire alle mie lezioni di gruppo. E come no, Verdun! Sarà  un piacere per me! Verdun venne, e ci mettemmo a ballare. E il vecchio ballava. Ballava tango. Non aveva bisogno di imparare. Vabbè, non è che non potesse imparare, ma non aveva bisogno di imparare, a mio parere. Verdun ballava come tanti, tantissimi uomini portegni e argentini. Quelli che hanno ballato da giovani, che hanno ballato molto o sufficientemente. Quelli che nei decenni del '40 o del '50 (calcolo approssimativamente) ballavano nelle sale da ballo, nei club, nelle feste. Verdun non era andato a nessuna scuola. Verdun ballava con la semplicità e la precisione di un uomo che la prima cosa che  sente è la musica. La musica succhiata da bambino, immersa dentro il corpo e che sempre lo aveva fatto ballare. Ballava bene. Ballava come se fosse la musica a portarlo, e non come se fosse lui a seguire la musica. Avanzava con un dondolio e con un abbraccio fermo e sicuro. Mi offriva quel piacere, uno dei più belli di ballare il tango, di essere cullata da due braccia forti. Qualcosa del piacere femminile nel tango deve provenire dal ricordo di un certo primitivo essere ninnate, quelle braccia virili che possono cullarci dolcemente.

Verdun mi cullava come tanti altri uomini anziani con i quali  ebbi l'opportunità di incontrarmi in feste e matrimoni. Tutti luoghi per nulla convenzionali del tango, al contrario delle milonghe. Il tango esiste anche in questi luoghi non tanghéri. Esiste in tutta la vita sociale argentina. In qualche compleanno ballavo con lo zio di una amica di mia sorella, e questo signore era per me la grande emozione della notte. Non era di quei giovani vecchi milongheri che ballano nelle milonghe o nei club. Quelli che mai smisero di frequentare con poca o sufficiente assiduità i luoghi di tango. Lo stile Verdun non era questo. Mi raccontò che da giovane aveva ballato molto nei club. Però poi si era sposato e come tanti non era tornato a ballare, a parte occasionali feste familiari. Altri, anch'essi dello “stile Verdun”, avevano continuato andando sporadicamente a questi club. Nell'interno dell'Argentina come in Buenos Aires esistono questi piccoli club o luoghi dove si ballano la cumbia e il tango. Dove convivono tutti i balli popolari del momento, e anche il tango. In questi piccoli club, nei Centri per Pensionati, nelle Associazioni e Società di Patrocinio di quartiere si organizzano balli, feste dove la gente “più anziana” va a ballare per “mantenere il vizio”. E loro ballano come ballavano molto tempo fa. In modo semplice. Alla Verdun. Verdun camminava con qualche controtempo quando la musica glielo richiedeva. Faceva pochi “ocho” per la donna, solo nelle occasioni in cui collocava l'arcaico “corte”. Fermava il movimento e muoveva la donna perché facesse qualche piccolo “ocho”. E con la mano, poiché non sapeva condurre col torso. Però questo arresto, per nulla pronunciato o evidente stava in relazione ad alcuni accordi più forti, con qualche accento ritmico che chiamava il taglio. Mai un incrocio. Mai un adornato incrocio. Era un camminare in modo semplice e ritmato. Però era una felicità ballare con Verdun, perché la sua semplicità lasciava tutto il posto al ballo nell'abbraccio con la musica.
Verdun mi chiedeva che gli insegnassi a ballare come lo stavo facendo con il gruppo. Molte donne facevano fatica a ballare con lui perché non si facevano portare sufficientemente. Perché non capivano la sua maniera. E non era che non le sapesse “marcare”. Bisognava entrare in sintonia con la sua sensibilità. Qui si nota quando una ballerina è preparata, ossia quando può farsi portare da qualunque compagno, in qualunque stile le proponga l'uomo. Verdun poteva ballare con quelle che si lasciano portare dalla cadenza della musica, da questo abbraccio semplice e profondo. Niente sequenze basiche, giri, strani pivot. Un dolce farsi cullare dalla musica. Un tango ascoltato come lo si deve ascoltare. Un tango sentito profondamente, naturalmente, essenzialmente.
Verdun è questo protagonista della storia del tango. È il soldato sconosciuto del tango. Quello che ballò nei club, seguì le orchestre, comprò i dischi, ascoltò le radio. Verdun è uno di questi  innumerevoli uomini orgogliosi di esserlo. È questo portegno o uruguagio che faceva sbocciare il ballo come la cosa più naturale della sua vita. Ascoltare Gardel o ballarsi qualche tango erano cose tanto essenziali come bere mate o cucinare un asado. Tanto naturale e impercettibile per la sua vita. Ora sembra che questo si sia convertito in un atto quasi eroico. Sì, in un certo senso lo è. Come è eroico vivere e continuare la vita di una comunità amandola senza darsene conto. Amare le cose proprie della vita della comunità perché sono così, solo per questo. Verdun è il portatore di un segreto che si trasmette e si riceve da mano a mano.
Io proposi a Verdun che venisse a ballare nelle mie lezioni, dato che gli piaceva moltissimo. Per lui era ritrovarsi con la sua gioventù, con i suoi propri desideri. Veniva incantato alle lezioni ad abbracciare queste giovani un poco reticenti a ballare con lui. Loro desideravano braccia giovani e un ballo un po' più complesso. Io godevo nel ballare qualche tango con lui. Gli proposi che venisse solo a ballare. Cercammo, a sua richiesta, di trasmettergli qualche passo. Gli risultava un po' difficile. Cosa risultava difficile, a quest'uomo, che era tutto fatto di tango? Gli costava entrare in un lavoro di assorbire una nuova maniera. Il suo stile di ballare tango era il suo. Era di tutta la vita. Gli dissi che non aveva senso che imparasse qualcosa, poiché già sapeva. Pensai anche che la esperienza poteva essere inversa. Che Verdun potesse insegnarci qualcosa. Però lui voleva solo ballare. Mi pareva che l'esperienza più interessante era che ballasse con le ragazze e che io cercassi di trasmettere loro quale fosse l'incanto del suo ballo, anche quando loro ancora non lo potessero capire.

Perché Verdun, come quell'illustre soldato sconosciuto degli eserciti del tango, non è quello che nei club emergeva per il suo ballo. In ogni barrio c'era, così lo raccontano alcuni vecchi ballerini, un club o un salone dove si ballava tango. E lì emergeva qualcuno, che potremmo riconoscere ora come maestro, come Portalea di Sin Rumbo. Ogni ballo, ogni barrio aveva qualche ballerino di tango rinomato. Dicono che un abile ballerino di un barrio non andava a ballare al centro di riunione di un altro barrio. Colui che si distingueva era unico, e aveva cura del suo posto.  E anche i suoi vicini avevano cura del suo posto. In ogni locale o club c'erano ballerini più bravi che erano in grado di  fare effettuare l'incrocio alla donna, che erano in grado di fare il giro, che sapevano mostrare le loro abilità  con i piedi. Erano quelli che forse avano imparato in qualche scuola, anche se la maggioranza avevano appreso dai genitori, o dai fratelli maggiori, dagli amici del barrio, dagli altri ballerini del club. Erano quelli che avevano cominciato a ballare da piccoli e che cercavano di ballare sempre un po' meglio, di aggiungere figure, mostrare le loro destrezze. Questi anziani che ci raccontano la loro storia ci dicono che in ogni barrio c'erano differenze nel modo di ballare. Ci raccontano che fra barrio e barrio c'erano differenze... piccole, però grandi per quelli che erano immersi nel micromondo del quartiere. I più osservatori, i più impegnati, i ballerini assidui di ogni barrio  lo notavano.
Lo stile Verdun è lo stile di quelli che, semplicemente, ballavano. Piaceva loro ascoltare certe orchestre. Avevano i loro cantanti o vocalisti prediletti. Ballavano e impararono a ballare in modo semplice. È molto probabile che nessuno avesse loro insegnato. Che entrassero nell'arena della pista e lì, spontaneamente, la danza cominciasse. Poi, con il tempo, si stabilirono in uno stile personale e semplice, e continuarono così. Ogni tango che ballavano era una sfida, non di destrezza tecnica, ma la sfida di rinnovare un piacere.
Verdun smise di venire a queste lezioni del sabato. Però sempre quando mi vedeva entrare nel corridoio mi diceva “Sabato prossimo, vengo!...” I suoi occhi brillavano quando lo diceva. Si capiva la felicità nel suo modo di dirlo, sul suo volto. La sua vita era abbastanza opaca, in quei giorni. Recuperava la sua brillantezza, quando ballava tango.
Si potrebbe pensare che lo stile Verdun era più autentico di altri? Sarebbe uno sproposito dirlo. Si potrebbe dire che la semplicità di Verdun  è quella del vero tango? Nulla di più lontano dal vero. Si tratta di convertire Verdun in un modello da imitare? No, poiché è inimitabile.
La potenza della musica per Verdun e per il suo ballo è la medesima della potenza della musica per un ballerino straordinario come Gustavo Naveira[1].  Tutti e due sono spinti, dominati, dalla musica. Però è chiaro: ci sono grandi differenze. Gustavo sa quello che sta facendo. Questo sapere è un tipo di dominio di ciò che fa. Però tuttavia la sua sensibilità di fronte alla musica è la stessa che quella di Verdun. La musica li prende tutti e due alla pancia e li fa ballare. Gustavo può sezionare in piccole particelle ciò che fa, quando spiega la ragion d'essere di ognuno dei suoi movimenti. Inoltre può arricchire i suoi movimenti di ballo, può dominare il suo corpo perché l'interpretazione sia più ricca, più abile, più variata. Però tutti e due condividono qualcosa che fa che un ballerino di tango sia un autentico ballerino, e cioè che la musica li colpisce in maniera tale che il loro ballo viene determinato da essa.
La distanza che c'è fra Gustavo e Verdun è enorme se li vediamo dalla distanza piccola del barrio. Così come si vedevano piccole differenze fra barrio e barrio, allo stesso modo possiamo vedere grandi differenze di stile fra Gustavo Naveira e Verdun. Ma sono poi differenze di stile? Forse sì, forse no. Dipende dalla distanza del luogo da dove si osservi. Però in qualcosa non sono differenti. Nessuno dei due può smettere di godere di ballare il tango con la musica.
Se scegliamo di guardare dalla distanza che ci è permessa dall'epoca di Google Earth, vedremo che le differenze si riducono, e che Gustavo e Verdun sono vicini di casa dello stesso barrio, della stessa sensibilità.
Forse nello stile che ora viene chiamato “milonguero” si riflette qualcosa di questo spirito semplice dello stile Verdun. Però lo stile milonguero si è ormai trasformato in uno stile sofisticato, rispetto  al Verdun propriamente detto. E perché no? Perché non andare acquisendo nuove destrezze, nel momento in cui si conservi lo stesso piacere del ballo? Verdun voleva arricchire il suo ballo. Voleva ricrearlo. Non per tradire il suo stile, ma per godere di qualcosa di nuovo. Io gli proposi di insegnargli qualche piccola cosa conservando il suo stile. Però imparare a ballare come lo facevamo noi era dovere mettere una grande parentesi in quello che faceva.  Certamente, Verdun poteva aggiungere qualche passo per sentirsi meglio. Però è anche certo che Verdun già era arrivato al suo stile. Già aveva il suo ballo completo. E aveva quello che non tutti tengono: la sensibilità per la musica, e il movimento, il suo.
Quello che facciamo noi ora, che ormai abbiamo accademizzato l'insegnamento, che possediamo conoscenze della dinamica  dei movimenti, è cavalcare sopra un tango molto più ricco, complesso, interessante nel suo aspetto tecnico.
Anche se è certo che dobbiamo insegnare ad ascoltare la musica. Nessuno insegnò a Verdun come doveva muoversi con certe orchestre, e meno ancora  quello che doveva provare, sentire. Nessuno disse a Verdun come doveva “sentire” la musica. Questo ci fu in lui da sempre. Ora dobbiamo organizzare seminari perché la gente ascolti i timbri, i ritmi, i fraseggi delle differenti orchestre e possa interpretarli. Però non lo insegniamo per imporre un modo. Lo insegniamo perché altrimenti la gente non balla con la musica, fa passi e figure senza metterci quello che è la fibra fondamentale dello stile Verdun:  la musica è ciò che ti fa ballare.
Sebbene ciò capiti soprattuto con gli stranieri, ossia con quelli per i quali la musica del tango è qualcosa di strano, nuovo, esotico, è anche certo  che per molti rioplatensi la musica del tango è qualcosa che ha smesso di essere il luogo in cui si è nati. Per molti di qui (Buenos Aires, ndt)la musica è qualcosa che bisogna lasciare entrare nella nostra sensibilità.
Però non si tratta solo del fatto di potere ascoltare la musica, ma che i movimenti che essa provoca  rispondano al suo timbro, al suo colore, alla sua cadenza.. Non si tratta solo di andare al ritmo con la musica. Questo si può fare, e tuttavia la sensibilità del movimento provocato dalla musica non si vede, non si riflette.
La sfida che hanno le nuove generazioni con il tango non è solo potere ricreare il ballo nel suo aspetto tecnico. È chiaro che il momento attuale è di una complessità crescente, di cui non possiamo sapere dove finirà nel suo accelerato, continuo e sorprendente arricchimento. La sfida è che si balli con la musica, con questa sensibilità naturale che fa sì che il movimento risponda ai colpi della musica, al suo ritmo, alla sua melodia e al suo fraseggio. La sfida che si continui con questa forte eredità di un ballo segnato dalla musica.
Verdun rappresenta l'anonimo popolo che alimenta lo spirito del tango senza saperlo, senza avere idea di quello che fa. Casualmente, Verdun si chiama come quella battaglia della prima guerra mondiale in cui morirono circa mezzo milione di soldati francesi e tedeschi. Sembra che fosse qualcosa come un pareggio (le mie conoscenze della prima guerra mondiale sono scarse). Dicono che fu un pareggio virtuale in una battaglia non decisiva. Credo che Verdun, il mio vicino di casa, sia uno di quei milioni di soldati sconosciuti che combatte in una battaglia, forse non cruciale, però certamente una battaglia, quella del tango, che si continua a sostenere giorno dopo giorno da parte di ciascuno che lo balli, col suo protagonismo anonimo, forse non decisivo, ma di certo essenziale.


[1]Scelgo di nominare Gustavo Naveira per metterlo in relazione con Verdun poiché egli è il maggior esponente di un certo stile di ballare il tango che alcuni sono molto interessati a separare da altri stili. Sono moltissimi i nomi di ballerini che potrebbero rappresentare qui questa cosa che condividono Gustavo e Verdun, moltissimi nomi di ballerini famosi così come anonimi. Il contrappunto è per ravvicinare questi due, Gustavo e Verdun, che molti vogliono distanziare.

TRADUCCIÓN: PIER ALDO VIGNAZIA

Fragmento de mi libro "Tango. Arte y misterio de un baile". Corregidor, 2011
 

L'UOMO CONDUCE MA LA DONNA NON È UNA MARIONETTA

L'UOMO CONDUCE MA LA DONNA NON È UNA MARIONETTA
di Lidia Ferrari
Esistono idee sul tango che a volte, senza essere esplicite, influenzano il modo di ballare. Poiché nel tango è l'uomo che si fa carico di condurre la danza (direzione, figure, ecc.), si tende a vedere questa guida in forma meccanica. Un certo segnale è lo stimolo di un atto riflesso, ossia: tale stimolo produce una determinata risposta automatica. Effettivamente la marca dell'uomo condiziona ciò che fa la donna.
Sebbene la regola nel tango è che sia l'uomo a condurre, ciò non significa che la donna sia una marionetta. In questo modo si cancellerebbe la produzione congiunta del ballo e, soprattutto, le emozioni che essa genera. Se si è guidati (anche senza rendersene conto) da questo meccanicismo nel modo di considerare la marca dell'uomo e la risposta a essa, si possono verificare diverse conseguenze.
All'inizio dell'apprendistato, sia nell'uomo che nella donna, si può notare che effettivamente molti si fanno questa idea della guida. Vediamo allora che gli uomini marcano in maniera meccanica e disarticolata e le donne rispondono, in modo immediato o facendo resistenza, ma senza considerare quello che possono fare in questa risposta. Si tende a delineare in modo molto schematico i segnali della marca. La mano che marca sulla spalla e le braccia sembrano disarticolarsi dal resto del corpo. Si separa la marca da tutte le intenzioni corporali: dalla direzione che vuole prendere l'uomo o dalla figura che vuole eseguire.
Si esagera la marca più di quanto sia conveniente, come se, per ottenere la risposta che si desidera, il movimento della mano dovesse essere molto evidente.
Nella donna è possibile osservare tutto ciò nel passo che cade, come se la donna non si prendesse il tempo o non avesse intenzioni, e come se non potesse sostenere il suo corpo indipendentemente dall'uomo o come se il passo non lo facesse lei.
Converrebbe, forse, trasformare l'idea dello schema stimolo-risposta in quella di un ingranaggio, in cui l'azione dell'uomo (tutto il suo corpo, la sua sensibilità e la sua intenzionalità) comporta che anche la donna produca azioni (con tutto il suo corpo, la sua sensibilità e la sua intenzionalità), sulle quali a loro volta si innestano le azioni dell'uomo, e così via. In modo che sia difficile isolare l'azione di uno da quella dell'altra.
Ci riferiamo specialmente al ruolo femminile nel ballo perché, per quanto si dica che è molto più semplice di quello maschile (e questo è certo), la donna deve farsi carico di un arduo compito. Da un lato deve affinare la sua sensibilità per riconoscere le intenzioni dell'uomo e, al tempo stesso, rispondere con la propria sicurezza, la coerenza dei suoi passi e i suoi tempi nel ballo. Un equilibrio delicato in cui la disponibilità, necessaria e sottile, a rispondere alla guida dell'uomo si articola con la sua fermezza, sicurezza e abilità.
Anche se l'impresa di diventare una buona ballerina richiede un percorso meno complesso di quello dell'uomo, non si deve trascurare la difficoltà che comporta il delicato compito di articolare la sua disponibilità alla guida dell'uomo con la fermezza del suo ballo. Ciò può far sorgere dei problemi se si esagera uno di questi due termini.
Se si esagera la disponibilità si può giungere a rispondere automaticamente ai segnali. La donna, agli inizi, spesso risponde automaticamente. Il passo si fa breve, poco consistente, come se cadesse. L'effetto è che la donna è trascinata, maltrattata, fino a perdere l'equilibrio. È un budino che non balla, ma è ballato. Non dà ai suoi passi il loro volume, la loro distanza e il loro stile.
Se la bilancia pende dal lato della fermezza quasi non si riesce a ballare insieme e con sensibilità. Evitando di abbandonarsi al ballo e a chi lo conduce, sembra quasi che balli da sola, come sottraendosi all'ingranaggio di cui fa parte. Nell'ingranaggio i due pezzi devono incastrarsi, coincidere, incontrarsi, dialogare. In fin dei conti non è un macchinario (anche se a volte lo sembra) ma un dialogo di sensibilità.
Una delle caratteristiche del ballo della donna sta nei suoi abbellimenti ma, soprattutto, nella sua maestria nel seguire l'uomo e nel ballare con il suo stile.
Quando una buona ballerina risponde molto bene alla marca, può ballare con qualunque uomo, imponendo il suo proprio stile e, nel contempo, adeguandosi allo stile di ballo dell'uomo. Agli occhi degli altri sembra che la donna sappia già cosa sta per fare l'uomo, come se indovinasse le sue intenzioni. La marca o la guida dell'uomo non si percepiscono, la risposta è immediata e molto coerente. Non si nota che lei sta lasciandosi portare, perché in ogni momento rimane sensibile e disponibile alla guida maschile. Si constata che ha stile, perché fa sembrare facile la difficoltà di percepire e capire la marca dell'uomo, e perché riesce a includere i suoi virtuosismi, i suoi abbellimenti, il suo ballo.

NOTA
1. Marca: insieme di "segnali" con cui l'uomo indica alla compagna le sue "intenzioni"

Fragmento de mi libro "Tango. Arte y misterio de un baile". Corregidor, 2011

 pubblicato sulla rivista BATANGO, Buenos Aires, anno III, n. 84, seconda quindicina di dicembre 1998
Traduzione a cura di Rosanna Remón e Roberto Manfredi

Balliamo? o "Mirada y cabeceo" (sguardo e cenno col capo?): L’invito a ballare

Balliamo? o "Mirada y cabeceo" (sguardo e cenno col capo?): L’invito a ballare 

La milonga è come un mercato, con la sola differenza che ciascuno di noi è tanto un venditore quanto un acquirente nella fiera del ballo.
Noi ci proponiamo alla clientela e, nel contempo, andiamo alla ricerca della mercanzia migliore. La milonga è un grande mercato dei desideri di ballare il tango - ed anche di altri desideri -. Ci offriamo per ballare ed altri si offrono a noi. Come al mercato, ognuno si offre quel che c’è di meglio. Alcuni, così come nelle fiere, imbrogliano. Dipingono di rosso le mele ancora acerbe, nascondono la frutta già avvizzita e mettono in vista quella a puntino. Alcuni ti truffano apertamente, bisogna dirlo. Ti vendono gatto per lepre. Anche nella milonga succede qualcosa così, almeno finché non diventiamo buoni intenditori e non compriamo più frutta e verdura qualsiasi.
La differenza sta nel fatto che in questo mercato siamo noi ad offrirci: il nostro corpo e la nostra sensibilità. Perciò, è meglio prendere alcune precauzioni per non far la fine del pesce che non si vende.
Un momento chiave della milonga è l’invito a ballare. Lì si mette in gioco il nostro modo di relazionarci agli altri, le nostre regole di convivenza esplicite e implicite.

L’invito a ballare. La mirada e il cabeceo.
In molte milongas la gente invita a ballare direttamente. Gli uomini si avvicinano alle donne e le rivolgono un "Balli?". Alcuni ricevono un no chiaro e tondo; altre volte, dame gentili trovano una scusa per non accettare l’invito. Senza dubbio, il ballerino si sentirà frustrato. E’ difficile non reagire di fronte a un rifiuto. Alcuni uomini ingegnosi perciò escogitarono una modalità d’invito per evitare queste mazzate. Con cautela, guardavano la donna che desideravano invitare per valutare un suo possibile assenso. Fu così che debbono esser nati i famosi “mirada e cabeceo”. Qualora lei, la ballerina, avesse reagito allo sguardo con fare desideroso di ballare, l’uomo avrebbe replicato sottilmente con un cenno col capo, affinché lei capisse l'invito. È facile dedurre che questa forma di invito avesse i propri vantaggi e così entrò nella tradizione tanguera argentina.
Si deve invitare con mirada y cabeceo perché a Buenos Aires si fa così?
E’ più avveduto adottare questo tipo di invito partendo da un presupposto egoista degli uomini ballerini: evitare i rifiuti femminili. Ma c’è anche un altro motivo riguardante le ballerine. Si tratta di evitare di porle nell’obbligo di ballare anche con chi non vogliono, qualora non osino rifiutare l’invito. C’è poi un altro motivo predominante per la donna ed è che, in tal modo, lei può scegliere con chi ballare. Una donna come sceglie quando non vuole o può invitare direttamente? Utilizza il proprio sguardo. Sceglie con lo sguardo. Se siamo svantaggiate nelle milongas perché di regola non invitiamo a ballare, almeno scegliamo chi guardare, sperando che questi c'inviti tramite un chiaro incontro dei nostri sguardi.

Ho ascoltato le confessioni di ballerini che hanno raccolto svariati rifiuti in milonga. Credo che, in questa fiera, lo sguardo sia la nostra difesa e la nostra alleata. Sia l'uomo che la donna possiedono nello sguardo un radar che rivela chi desidera ballare con loro. Perché la cosa bella è ballare con chi ci piace ed a cui piacciamo.
L'uomo guarda (“mira”) quelle che desidera invitare a ballare. Se non viene guardato è perché esse non intendono ballare con lui. Lo sguardo è una risposta di consenso. L'assenza di sguardo equivale ad una mancanza di interesse. Se l'uomo guarda varie volte una donna e non incrocia mai il suo sguardo, significa semplicemente, che non vuole ballare con lui. Perché insistere nel voler ballare con chi non vuole ballare con noi?
Ovviamente ci son luoghi in cui “mirada y cabeceo” non funzionano. Son quelle milongas in cui la gente va in gruppo e balla solo con chi conosce. Se ci troviamo in un posto così “mirada e cabeceo” non solo non sono necessari, ma non hanno alcun senso. Anche a Buenos Aires ci sono milongas dove la gente balla soprattutto con chi conosce. E questo non è un peccato. Ma io preferisco quelle milongas nelle quali tutti o quasi tutti ballano con tutti o quasi tutti. Mi piacciono le milonghe dove posso ballare con qualcuno che non conosco. Mi piace l’interscambio, in milonga. E’ la premessa di un buon incontro.

Ballare con uno sconosciuto o una sconosciuta.
È utile aver visto come balla la persona che si vuole invitare o che desidera invitarci. Osservare come balla una persona con cui ci piacerebbe ballare è un modo per conoscerlo/a. C’è stata un’epoca in cui esistevano i vareadores (animatori), non so se ci siano ancora. Ne ricordo uno. Era un signore di una certa età che invitava, all’inizio delle milongas, soprattutto quelle ballerine che non venivano invitate. Egli sapeva che la propria funzione era un vantaggio per le donne. Diceva che le "mostrava", perché sapeva bene che, se una donna non balla, è probabile che non venga invitata a ballare semplicemente perché gli uomini non sanno se balla.
Generoso, l’atteggiamento di questo cavaliere.
Io suggerirei agli uomini che s’apprestano ad invitare una donna che non conoscono, e se non sono ballerini collaudati, di invitarla dopo il primo o secondo pezzo di una tanda. Altrimenti la tanda nella quale balliamo con qualcuno, con cui non ci piace ballare, diventa interminabile, eterna.

Se un uomo invita la donna in modo diretto, se essa è cortese e non vuole respingerlo, la sta forzando a ballare con lui.
M’è capitato una volta, in una milonga tradizionale, che un signore mi invitasse a ballare direttamente, si fermasse di fronte a me cogliendomi di sorpresa. È difficile che io dica di no. Lo faccio per cortesia. Entrai in pista a ballare e si rivelò un vero disastro. Non ballava bene, il che per me non è un problema, però la sua postura ed il suo abbraccio mi causavano un grande fastidio. Non osavo sospendere il ballo, ma il fastidio andava crescendo. Cosicché, prima del terzo o quarto tema mi feci coraggio e gli dissi che mi dolevano i piedi, o qualcosa del genere. Non ricordo bene la scusa. Immediatamente e con aria furiosa, mi disse che ciò non era ammissibile, che non potevo smettere di ballare e mi minacciò dicendomi che gli altri uomini presenti non m’avrebbero invitata mai più. Questo tipo mi trattenne e non lasciò che lo lasciasse. Quando cominciò il tango, mi prese in fretta obbligandomi a continuare a ballare, fino al mio tavolo. Lì mi lasciò quando la musica finì. Era chiaramente un espediente per mostrare che era lui a lasciare me, e non io lui. E’ stata l’unica volta che ho vissuto una situazione così sgradevole. Il peggio è stata la sensazione di violenza nel vedere che non potevo smettere di ballare, salvo non sollevassi un forte litigio. Ma siccome non mi piace creare confusione, sopportai in silenzio.
Cos’era a turbare questo tipo al punto di non accettare che lo lasciassi nel mezzo di una tanda? Lui non voleva che i suoi compagni ballerini lo vedessero mentre veniva respinto. Qui, l'immagine di sé, che lui supponeva di dare agli altri ebbe un peso brutale sul suo atteggiamento. Mi pare che l’uso di “mirada y cabeceo” possano evitare queste situazioni. Ora, non credo nemmeno che “mirada y cabeceo” siano un qualcosa di sacro.

Per me, il luogo del ballo, deve essere un posto di interscambio, dove la gente sia tutta il più cortese possibile, e dove gli egoismi e le vanità vengano messe in gioco con modestia. Sì, sembra difficile.
Perciò, se un ballerino che ha appena cominciato a ballare e vuole ballare con una ballerina esperta, può invitarla quando la tanda è già iniziata, ballare soltanto uno o due tanghi, e così tira a sorte la possibilità di un rifiuto, e nel contempo, le evita un potenziale disagio.

I codici/regole che si sono escogitati nelle milongas hanno una loro ragione di essere. Mirada y cabeceo vanno applicati ovviamente nei luoghi dov’è possibile. In un locale molto ampio e dove la luce è molto tenue, o dove la gente balla solo tra gruppi di conoscenti, la mirada e il cabeceo perdono tutta la loro efficacia. Quindi, imporre un dogma senza trovarne il suo senso attuale e reale, significa trasformare la milonga in una sorta di messa in un tempio. E, per fortuna, ballare il tango non è una religione.
  Di Lidia Ferrari
Treviso
1/11/2012
(Traduzione di Pietro Adorni)

Un po’ di calma, per favore!

Un po’ di calma, per favore! - Lidia Ferrari

Sembra difficile in un momento come questo avvicinarsi a una riflessione che possa creare una pausa nella frenesia che agita il mondo del tango.
Sembrerebbe che il fenomeno dell’assembramento sia giunto al tango, almeno alla manifestazione del ballo ed al suo ambiente. E con esso sono arrivati due peccati: superficialità e interessi.
Per l'interessi dobbiamo vedercela coi furbi di turno che fanno qualche soldo col tango, con gli avidi di tagliare la fetta migliore di una torta che non si sa mai quanto durerà, con le persone che non sanno vivere in altro modo che non sia redditizio perfino nelle minime azioni della vita.
Per la superficialità dell'incontro dobbiamo vedercela con la gente che crede, crede ancora che arrivare al cielo o realizzare il sogno della vita si può comprare con la carta di credito via Internet o che la fortuna si possa acquisire a rate comode. Passione e felicità sono articoli nel mercato delle promesse facili da realizzare. Nulla di ottenibile col lavoro, dedizione, con interesse genuino si trova in questo mercato. La passione la puoi comprare con un biglietto per un paese latinoamericano, in un best-seller rosa-erotico o con alcune lezioni di tango.
Questi due peccati compaiono quando non si fanno bene le cose. L’aumento di interesse per il tango ha consentito a molta gente talentuosa di espandere le frontiere del tango e moltissime produzioni di livello eccellente sono state possibili grazie al loro finanziamento. Nemmeno la superficialità sarebbe un peccato, quando si tratti di un avvicinamento al tango per divertimento che viene fatto nel modo migliore. Dico “peccati” qualora il lucro e la superficialità attentino alla qualità.
Poiché questo mercato è tanto esteso, risulta che appaiano molti venditori e molti compratori. Quanti più compratori, più venditori e quanti più venditori, più compratori. Tutti contagiati a vicenda.
Così pullulano come non mai i festival che, come minimo, sono internazionali, perché li ho visti anche universali. Lì si incontreranno i maestri dell’Olimpo in una pista col pavimento di parquet appena incerato nel miglior palazzo di Saturno.
Diceva Mafud che "La “tanguidad” è un'autentica cosmo-visione del mondo.". "Il tango si esprime e si universalizza all’interno, nel mondo intimo di ognuno; procede in profondità: mai all’esterno...". "In sostanza, il tango è un atto confessionale.".
“Il tango non si può cantare in coro. Né si può ballar in "cerchio", collettivamente... La convivenza tanguistica, più che convivenza di mondi, è ruminazione interiore di ognuno nel suo mondo peculiare. Col risultato che le sue innovazioni fondamentali sono state apportate da uomini soli. La sua origine non è mai collettiva o anonima, bensì individuale e vissuta.".
Non so se Mafud abbia ragione. Non credo che esista una “tanguidad” come cosmo-visione del mondo, né che non possa essere ballato collettivamente e neppure so se esista la “tanguidad”. Ma quel che, sì, credo è che richieda, almeno il ballo del tango, un incontro con sé stessi e con gli altri, con calma, partendo dalla disponibilità ad essere in due a conversare nel ballo. Con calma, senza rumori, per poter ascoltare la sua musica, per poter ascoltare la propria sensibilità e quella degli altri.
Sembrerebbe che nel tango due cose si stiano incontrando nel tempo e nel luogo.
- Una è la necessità ineludibile che abbiamo di trovarci con gli altri. Ma vogliamo che sia rapida e soddisfatta agevolmente. L'urgenza non ci permette che l'incontro si produca nella sua giusta misura e che dedichiamo il tempo e l’esercizio necessari per ballare bene. La necessità di socializzare - reale ed imperiosa -, fa parte di un contesto nel quale crediamo sia facile trovare quello che vogliamo, come se trovarsi con gli altri fosse qualcosa che si possa comprare.
- L'altra cosa che s’aggiunge è la necessità di trovare un modo di sussistenza economica. Come sempre, da quando il mondo è mondo, dobbiamo procurarci il necessario per sopravvivere. E il tango sembra un prodotto facile da vendere. Alcuni devono vendere qualcosa ed altri devono comprare socializzazione. Facciamo un pacchetto di tango e ferie, o tango e crociera, o tango e festival ed avremo due bisogni soddisfatti. Niente di male in tutto in ciò. È bello poter ballare con un gruppo di persone che stimiamo e godendo di un paesaggio splendido, con una bella musica di tango. Però non ci sarà garantito all’acquisto del biglietto. Primo, c’è bisogno di gente che sappia ballare o che impari a ballare. Quando si incontrano sulla nave da crociera, nell’hotel o dovunque sia, la cosa potrebbe non funzionare. La musica non si ascolta. Sono talmente tanti che non c'è posto per tutti, o il cibo è cattivo. La maggioranza non sa ballare, i maestri danno lezioni per i livelli “avanzati” a gente che ha appena cominciato, quelli che sanno ballare si indispettiscono con quelli che non lo sanno fare, le donne s’indispettiscono con gli uomini che non le invitano, e quello che era, o doveva essere, un incontro di socializzazione finisce per essere uno scontro. Alcuni ci guadagnano. Ma non troppo.
E quanto al tango? Se ti ho visto, non mi ricordo! Il tango, quello di cui parlava Mafud, quello dell'intimità, quello della pausa, quello che si riprometteva un incontro di conversazione, di sensibilità? Quel tango, non è salito sulla nave da crociera o ha continuato a vagabondare per il festival.
Al tango, questa ressa, intesa così, non fa neppure un graffio, perché prosegue il suo cammino dove lo si pratica in modo autentico, con calma, senza urgenze. A chi non fa bene è alla gente che crede trovare lì la passione o la socializzazione promesse e trova disordine ed avidità.
Chi desideri imparare a ballare il tango dovrà sapere che è servono soltanto voglia e dedizione, pazienza e desiderio di comunicare con gli altri e tempo, sempre tempo. Perché Troilo, che qualcosa sapeva di questo, diceva "Il tango ti aspetta”. Ma se il tango ti ha aspettato non è perché tu pensi che, comprando un biglietto aereo per Buenos Aires o eseguendo qualche passo, già lo conosca bene.
Mi pare che ci sia bisogno di calma, dedizione ed umiltà per potere trovare nel tango qualcosa di quello che ci può offrire.

Lidia Ferrari
Treviso, 7 marzo 2012
(traduzione di Pietro Adorni, 24 marzo 2012)

El tango te lleva sin decirte adónde va

Introducción de mi libro "Tango. Arte y misterio de un baile".
Para compartirlo con los amigos que no han leído el libro.

El tango te lleva sin decirte adónde va
Escribir sobre tango llega en la hora en que los pies están cansados, cuando el placer de haber bailado lo suficiente nos deja un resto de insatisfacción que pone a andar las palabras. Cuántas desveladas trasnoches luego de milonguear hasta la fatiga nos encontraron compartiendo en la charla aquello que fue disfrutado con plenitud o aquello que quedó sin gozar. La escritura y el habla no sustituyen al baile pero, a veces, las palabras atizan el fuego de la danza. En otras ocasiones, los ecos de la música y de la poesía del tango iluminan territorios inexplorados y sugieren que un camino de sorpresas puede empezar cuando música y baile terminan.
Permanente asombro me ha acompañado a lo largo de más de veinte años de vivir y pensar en el tango.
Para los rioplatenses el tango está en nuestra piel, en nuestra alma desde que nacimos, frecuentemente sin saberlo. Su dominio está en que sentimos ajeno eso que nos lleva desde adentro. Bailar el tango ha sido ingresar a un mundo de torbellino y dicha, todo mezclado. No hay medias tintas. O estás ahí, tomado por el fervor de su baile o quedarás curioseando en sus márgenes viendo como otros lo hacen. Bailar el tango llama a bailar el tango y él te lleva sin decirte adonde va.
Una curiosidad que nunca se detuvo me llevó a interrogar su historia, la práctica del baile a disfrutar sus infinitas maneras, la enseñanza a aprender a transmitir.
El tango como baile ha cruzado ya tres siglos y ha expandido sus fronteras porque su matriz, su estructura primigenia, tiene la riqueza de algo que puede desplegarse y ensancharse siempre un poco más.
Esa matriz, dos cuerpos abrazados que bailan improvisando con los pies, es de una riqueza infinita. Como algunas teorías en física, el hallazgo de una fórmula permite desplegar un campo vastísimo si se exasperan sus posibilidades.
Esta nueva forma bailable revolucionó los bailes de salón allá por el 900, pues no solo inventó una nueva dinámica entre los cuerpos que bailan sino también el intercambio sensible entre ellos. Una revolución prodigiosa que puso en contacto la sensibilidad de dos cuerpos con la música en una intimidad que no existía en bailes anteriores.
Hablar con el cuerpo no es fácil, escuchar y entender el cuerpo del otro tampoco es fácil, pero construir cada vez una obra de arte efímera en consonancia con otro, con la música y sin la palabra, es sin duda lo que lo hace un arte singular y especial.
Horacio Salgán dice: “El tango es un misterio. Es un género que tiene muchas manifestaciones. Cada tango es una individualidad. En un solo compositor, como Agustín Bardi, uno puede escuchar un tanguito, como Tierrita, perfecto en su tipo, y un gran tango, como La que nunca tuvo novio. Por otro lado, el tango es único, no se parece a nada. Comienza con un acompañamiento de habanera, pero eso dura muy poco; cuando desaparece la habanera, el tango ya no se parece a nada ni tampoco a lo que era en un principio. No se parece rítmicamente a ningún género”1. Salgán se refiere a la música, pero también su baile no se parece a nada anterior.
Bailar el tango se aproxima a una experiencia artística que nos llama a profundizar su misterio, no a develarlo.
Como el poeta crea sus metáforas y el músico sus acordes, nuevas combinaciones y formas se reinventan en el descuido o en la inconsciencia del bailarín. El tango es una cosa viva, se nos escapa de las manos cuando creímos atraparlo. Troilo dijo alguna vez que el tango te espera. Agregaría, para sorprenderte.
La riqueza casi inabordable de las manifestaciones creativas del género del tango son de una calidad difícil de encontrar en un arte popular. Un arte popular y anónimo por fuera de círculos académicos o instituciones oficiales. El tango no conoció la Academia ni como visitante.
El que baila tango recoge el aplauso de los propios latidos de su corazón. Busca reconocimiento en la sonrisa cómplice del partenaire o en su íntima sensación de placer. La notoriedad se obtiene entre los que comparten esa inmensa ronda de pública felicidad, que mitiga la injusticia del anonimato de los bailarines.
Este es el arte popular, el que se crea todos los días en el patio de atrás, en el piano desvencijado, el que viaja en colectivo. Este es el arte popular, el que se crea por puro deseo de juego y creación.
En la fibra íntima de las cosas que se crean se expresa este síndrome argentino. Es parte constitutiva del arte llamado tango y de su baile. Su espontaneidad, su no estandarización, su improvisación. Estas páginas surgieron al fragor de esta forma de ser de la cultura rioplatense.
La historia se construye en el entrecruzamiento de múltiples miradas, crónicas, historias singulares. Esta es una de ellas y se ocupa, sobre todo, del baile, que forma, junto con la música, poesía e interpretación esa materia llamada tango.
Se encontrarán aquí claves para arrimarse a la magia del baile, fragmentos de historia, apuntes para una genealogía, reflexiones sobre la didáctica y metodología de su enseñanza y, sobre todo, crónicas de un mundo febril que en lugar de apagarse en los años 90 como podía preverse, resurgió con renovado ímpetu.
Los artículos aquí reunidos fueron escritos en el transcurso de más de quince años, la mayoría inéditos. Están organizados en capítulos temáticos, si bien cada uno de ellos puede ser una pieza única. Citando una bella frase de O. Mannoni puedo decir que estas piezas “no forman un continuo sino más bien un archipiélago donde nada impone un orden de itinerario para ir de una isla a otra. Si ellas se comunican, es por debajo del mar”.


Lidia Ferrari

 Introducción de mi libro "Tango. Arte y misterio de un baile".
Editorial Corregidor, 2011, Buenos Aires

EL TRAFICO EN LAS MILONGAS

EL TRAFICO EN LAS MILONGAS (Por Lidia Ferrari)

Quizá los lugares de baile no son sino una pista reducida que remeda el tránsito febril de una ciudad. ¿Podrá definirse el estilo de una ciudad por su tráfico vehicular? ¿Será que así como se transita en la ciudad se baila en una milonga?
He querido comparar el fluir en las milongas de Buenos Aires con el tráficoo en la ciudad de hace más de 30 años, según la amorosa descripción que hace Florencio Escardó y no con el tráfico actual de la ciudad, algo más acelerado, imprudente y caótico. Por suerte todavía no ha llegado este estilo de tránsito a las milongas, al menos en la mayoría de ellas.

Hace más de treinta años el tráfico en la ciudad de Buenos Aires obedecía a ciertas leyes que todavía hoy están en vigencia, aunque el incremento en la cantidad de vehículos, cierto deterioro en las formas de comportamiento, la exacerbación de un torpe individualismo, han convertido el tráfico en la ciudad de Buenos Aires en algunas partes de la ciudad en un lío cotidiano.
Por lo tanto no tomaremos para esta relación la situación actual del tránsito de Buenos Aires, sino el tráfico vehicular en la ciudad, tal cual lo vio y pensó hace más de treinta años Florencio Escardó[1]. Su mirada de Buenos Aires y los porteños, no pierde lucidez pese a su declarado amor[2]. Sólo que ha cambiado la ciudad desde entonces. No se avistaban aún desmanes y rapiñas de décadas posteriores. Una ciudad diferente pero que conserva algunos de sus encantadores caracteres, quizá supervivientes porque son sus cimientos, su sustancia.
Antes de arribar al tránsito urbano Escardó analiza con sabio ojo clínico la afectividad del porteño. En su descripción muestra el amor que los porteños tienen por su ciudad. Este modo peculiar de amar, dice: “le permite sustituir la presencia por la remembranza, tal alguien que estuviese soñando con la mujer que tiene entre los brazos, sin darse demasiada cuenta de su corporal proximidad”. Una ciudad amable y amada. Sus rasgos generosos en la cordialidad, sus rasgos conviviales en la amistad, le permiten pese a la agresividad de toda gran ciudad, pese a su prisa, perdurar en los valores de la amistad y afabilidad entre sus gentes. Eso encuentra el viajero: una ciudad cordial. Sus gentes son amables, se dirigen al otro, lo reciben, lo tienen en cuenta, a veces para timarlo o para robarle, pero sobre todo para hospedarlo. Los porteños se tienen en cuenta. Una de las principales diferencias con otras grandes y pequeñas ciudades, se refleja en ese intercambio, a veces sin palabras, que se siente al caminar por sus calles. Uno no se siente solo. La velocidad de la vida cotidiana no impide tomar café con amigos. Los bares siguen siendo lugares de encuentro, quizá diversos de las animadas tertulias de otras décadas pero no del encuentro amistoso para hablar. El porteño siempre se hará el momento para charlar, para comer con amigos.
Para Escardó Buenos Aires tiene la inteligencia de la improvisación, de la espontaneidad, del repentismo. Sus descripciones ayudan a pensar la circulación de los bailarines en las milongas, asunto no tan sencillo[3].
Sospecho que en el espacio de las milongas sobrevive esa ciudad algo lejana donde el desafío de ocupar espacios, de ganar batallas por el propio lugar no estaba reñido con el del respeto por el espacio ajeno. Sin duda un equilibrio delicado, el de poder ocupar el propio lugar sin desmedro del lugar de los otros. Así habla Escardó de la ciudad porteña: “La inteligencia es también una playa de convergencias para la porteñidad. Buenos Aires es una ciudad inteligente;... La inteligencia de que se goza en Buenos Aires pertenece ínsitamente a la ciudad como entidad específica; no es la suma mental de sus habitantes. La inteligencia, tomando la palabra en el sentido de agilidad cerebral y de rápida comunicabilidad, es un fluido penetrante y penetrado de la urbe”. En la milonga se trata de esa agilidad necesaria para no pisar a los otros, para no chocarlos y para ir hacia ese pequeño hueco donde cada uno puede hacer sus firuletes.

Escardó sostiene, además, que todo el que viene aquí, del interior o del exterior del país, al poco tiempo adquiere “la velocidad ideatoria capitalina, el tempo relacional de la urbe en donde las comunicaciones se canalizan y reverberan con elástica facilidad”. Florencio Escardó observa esto en los mozos de los restaurantes, en el colectivero que en aquella época hacía todo, además de conducir: vender los boletos y recibir el dinero. Observa esta rara habilidad, la de un orden espontáneo merced a esa destreza improvisada. Estos rasgos permanecen aún hoy, sólo que se han añadido otros que pervierten los positivos resultados de antes o quizá, llevados a su propio extremo, pierden algo de su simpatía.
Así como los que vienen a las milongas de Buenos Aires observan la gran diferencia con las europeas o norteamericanas, también Escardó tiene algo para decirnos. “En Buenos Aires las cosas suceden de un modo total y absolutamente distinto, diría que en oposición diametral; ni las señales, ni los trazos en el piso, ni las flechas, ni los carteles directores y advertidores, han conseguido reducir en algo la necesidad de improvisación del porteño”. Observa al vigilante que ordena el paso de acuerdo a sus simpatías y humores, practicando “el goce de quien usa su facultas ludendi”. La vocación por eludir la rutina y lo calculado, crea cierta libertad en el modo de transitar. Lo ejemplifica con el taxista que trata de evitar los semáforos. Cada taxista tiene un recorrido que cree es original para evitar semáforos y atascos.[4]
Pero no nos interesa detenernos en el complicado tema del tráfico de la ciudad sino en el de las milongas. Esta reflexión surge al calor de las polémicas que existen en otros países, donde se discuten las reglas, los códigos, las formas de bailar en la milonga. Es posible ver en algunas de las milongas extranjeras cierto caos o dificultad de bailar, aunque la cantidad de bailarines por metro cuadrado sea ostensiblemente menor que en Buenos Aires. Como muchos ya han viajado y han tenido la oportunidad de conocer las de Buenos Aires, también hay muchos que tratan de enseñar, si son maestros o cultivar, si son bailarines, ciertos códigos que observan en las milongas de aquí. Como resultado de ciertas pautas que se pueden deducir del funcionamiento en las milongas porteñas se intenta importar el mecanismo observado. Y no se encuentra otro medio que el tratar de imponer reglas. Entonces, la forma de lograr cierto orden se intenta a través de imposiciones, de códigos a respetar. Esto surge de la idea de que se puede legislar o decretar estos códigos de convivencia milongueras. Obviamente, en las milongas porteñas ese orden improvisado es el fruto de tantos años de una cierta cultura del intercambio y ausente de leyes expresas. La dificultad en remedar a las milongas porteñas es que esos comportamientos son producto de costumbres, hábitos, comodidades cristalizadas en una forma, sin necesidad de decretos o leyes de ningún orden. Se trata de la precipitación de esas agilidades, tanto físicas como mentales, en la forma de bailar para acomodarse en el espacio.
El espacio puede escasear pero el bailarín no intenta apropiárselo sino compartirlo para su felicidad que también es la de todos.
No lo hace por generosidad sino por el egoísmo de fecundar un espacio colectivo donde todos puedan bailar bien.
Parafraseando a Escardó cuando habla del tránsito en Buenos Aires, en las milongas porteñas “cada uno es responsable de lo que va construyendo con una indefinida pero definida confianza en la propia inteligencia y en la inteligencia de los demás”. De eso se trata en las milongas porteñas donde el bailar en consonancia con otros requiere de cierta inteligencia para que uno mismo pueda bailar y, por traslado directo, que los demás puedan bailar. Se trata de “locos hiperlúcidos” centrados en lo propio, con tal rapidez para ver alrededor, para estar conectados con los otros, mientras no obedece a más reglas que las propias, reglas que se comparten, pues todos comparten este afán versátil. Todos pertenecen a un compartido de individualidades, en el cual cada uno quiere evitar los embotellamientos, los atascos. Escardó reflexiona que aquel que se mete en un resquicio para poder pasar (pensemos en 1971, no en la actualidad), hace lo mismo que todos y es así que en lugar de que choquen o confronten, pasan sin tocarse. Así en las milongas, el arte de aprender a bailar el tango requiere también del aprendizaje de este otro arte. El bailar con otros al mismo tiempo, en el mismo espacio. Ir a los resquicios que quedan para no chocar. Moverse como se desea pero sin colisiones, pues eso no le agrada a nadie. Para Escardó el obstáculo era el “marmota” o el “dormido” que no reaccionaba para lograr meterse en el resquicio y que todos pudieran seguir adelante. De allí que las bocinas se usaran para despertar al dormido. Dirá que en “otros lados los problemas del tránsito son mecánicos y espacio-temporales; en Buenos Aires, equilibrios mentales en los que se complace la sutil y arbitraria inteligencia del porteño”.
Esta natural tendencia a la improvisación que observa Escardó en el porteño, en la ciudad, es la que necesariamente será la habilidad a la que deberá recurrir el bailarín en la milonga. Improvisación de su baile y, sobre todo, improvisación en esa marea humana que se traslada simultáneamente por la pista. Si existen códigos implícitos, ellos surgieron a la luz de esas improvisaciones complementarias para ayudar a que todos pudieran bailar juntos. Porque eso quiere un bailarín, bailar lo mejor posible, como el conductor quiere llegar pronto a su destino. Por lo tanto su acción, para llegar a su objetivo, individual, personal, narcisista, como se quiera llamar, es que sea una acción inteligente para él y, por añadidura, también para los demás. Esta inteligencia, como dice Escardó, es el resultado casi inconcebible de una adaptación interpersonal permanente, continua, renovada y renacida en el seno de una inaudita capacidad de improviso”. Todos “se hallan presos y libres en la misma incertidumbre”.
Es una inteligencia individual pero que está en consonancia con algo que sobrevuela el espacio de todos. Sin esto, no habría milonga posible, con tantas gentes apretujadas entre sí y bailando y disfrutando de un baile que, para peor[5], también es improvisado en el interior de cada pareja.
Esta capacidad de improvisación, de repentismo, de ingenio para salir del paso, es prototípica del porteño. Puede resultar en una “avivada” y por lo tanto, encontrar la víctima que la padezca, pero también es parte de un mundo en el que todos están con todos. Donde nadie se pierde nada de lo que pasa alrededor además de estar muy atento a su propio mundo. Sin duda esta ingeniosidad relacional, que satisface al más acendrado narcisismo tanto como a la pulsión gregaria, está en el origen de que en una milonga muy llena de gente aún se pueda bailar. Obviamente, estos espacios se han ido deteriorando cuando esta ingeniosidad o inteligencia se ausenta, ya sea por recién llegados que carecen de estas virtudes, ya sea porque la cantidad excede las posibilidades de este bricolage bailante.
Es notable como en las milongas de otros lugares se puede ver que el narcisismo, el individualismo es diferente del de los porteños que, sin duda, también es fuerte. Este otro es egoísmo infantil, en el sentido que las personas están tan poseídas de sí mismas que bailan como si los otros no existieran. Este egocentrismo se da malísimamente mal con el espacio colectivo. Por lo tanto se verán milongas donde los egos dominan la escena y los tímidos se achican y no bailan. En cambio, el narcisismo que circula en las milongas porteñas tiene como supremo valor el bailar bien. Este buen bailarín puede contemplar al otro, darle su lugar y hasta competir con él, permitiéndole la existencia, para permitírsela a sí mismo. El espacio compartido entonces no es resultado de legislaciones duras que impiden u obligan que las personas bailen de tal o cual manera. No hay leyes al respecto. O las hay de modo tácito, implícito. Las del respeto no por las leyes que son algo extra personal, sino de las propias leyes, las individuales, las que conducen a encontrar el placer del baile propio que es el de todos.
Sin duda que la ciudad de Buenos Aires, actualmente ha deteriorado esta capacidad plástica de organizarse en el espacio vehicular. Como ocurre en las calles aledañas a las milongas, en ocasiones entra a a ellas este deterioro que inhibe la inteligencia. Cuando el caos arribe a las milongas (si eso llega a ocurrir) la imposición de códigos no dará el mismo resultado que la espontánea organización del fluir acompasado de bailarines. 

Setiembre 2007

[1] Escardó, Florencio. “Nueva geografía de Buenos Aires”. Editorial Américalee. 1971

[2] Dice Florencio Escardó en el Proemio: “ ...mi Geografía es un libro de amor a Buenos Aires y amar a la ciudad es una de las más poderosas determinantes del alma porteña.” Pag.9.

[3] Decimos que no es tan sencillo al ver lo que sucede en milongas que no son las de Buenos Aires. La espontaneidad con que se da la circulación en las milongas porteñas, contrasta con los esfuerzos que se hacen en otros lugares para repetir la experiencia.

[4] En los últimos tiempos algunos están más resignados al fragor y la impotencia cotidiana y llegan a decir “toméselo con calma porque todas las calles están igual”.
[5] Sólo irónicamente puede decirse este “para peor”. Lo más bello del tango es su posibilidad de improvisación permanente.


Fragmento de mi libro "Tango. Arte y misterio de un baile". Corregidor, 2011
www.tangoarteymisterio.blogspot.com
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